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Ma tutto questo Alice non lo sa #5 (racconto breve in 5 puntate)

8 Mag

Vuoi iniziare direttamente dall’ultima puntata? No? Allora ecco, per te, la 1, la 2, la 3 e la 4. Buon ripasso!

Alice (pronunciate il suo nome come volete) si rialzò e mi diede un bacio sulle labbra. Intenso. Poi mi disse grazie, come se l’avessi liberata di un peso. Ci addormentammo per qualche ora, abbracciati, finchè le luci del mattino mi ricordarono che dovevo accompagnarla a prendere un aereo che l’avrebbe portata per sempre lontana da me. Mi sembrava impossibile dover rinunciare ad un sorriso che non avevo mai visto fino alla sera prima. Ma non avrebbe avuto senso dirle che saremmo rimasti in contatto.

«Ti aspetto a San Francisco» mi disse prima di scendere dalla macchina.

«Sì, ma come ti trovo?»

«All’incrocio tra Mission Street e Lowell c’è la lavanderia di mia madre. Chiedi di Elis».

«Verrò»

«L’hanno detto in molti, nessuno l’ha fatto».

Feci a meno di farmi delle domande. Lei mi diede un altro bacio e andò via.

«Elis» tirai il freno a mano. Forse si spaventò.

«Sì…»

«La borsa» aprii lo sportello della macchina ma con un gesto della mano mi frenò.

«Sai tenere un segreto?»

«Certo»

«Mi prometti che non penserai male di me?»

«Te lo prometto.»

«E che verrai davvero a trovarmi?»

«Ho paura dell’aereo ma…»

«Allora tienila tu la borsa. Arrivato a casa sbarazzatene, fanne ciò che vuoi.»

Mi diede un altro bacio e andò via. Rimasi inebetito. Timoroso e incosciente. Guidai dritto fino a casa. Senza soste, ripensando a quella notte, al sesso magnifico che mi aveva concesso. Ai suoi vent’anni o poco più. Arrivato a Fabriano mi fermai in un bar a fare colazione. Nel solito bar del centro. Come se quella notte fosse stata un sogno. Ordinai il mio solito cappuccino e presi tra le mani il giornale locale.

 Quarantasettenne ucciso nella notte da tre colpi di pistola

Nessun indizio sull’omicidio di Fabrizio Stroppa, imprenditore fabrianese originario di Sassoferrato, ucciso ieri notte, nel suo appartamento di via La Spina 11 per mano di uno sconosciuto. Probabile si trattasse di un rapinatore ma non sono da escludere altre ipotesi, al momento. A un primo esame non sono stati riscontrati segni di violenza sul corpo, eccezion fatta per i tre colpi di pistola al cuore. Purtroppo non sembrano esserci testimoni oculari dell’accaduto. L’uomo non è sposato e non ha figli. I vicini dicono di aver udito alcuni colpi di pistola, ma pensavano si trattasse di rumori provenienti dalla TV. La polizia sta indagando sul movente che al momento appare misterioso. “Era una brava persona – ha dichiarato la signora Chiara, vicina di casa – conosco Fabrizio da 10 anni. Gran lavoratore, persona per bene, andava a messa tutte le domeniche. Non mi capacito per quello che è successo.” Nessuno riesce a darsi una spiegazione, non ci resta che aspettare il corso delle indagini. A quanto pare neanche la nostra tranquilla cittadina è più al sicuro.

La pistola. L’uomo di quarantesette anni. Senza figli. La pistola (ancora, quel tatuaggio). A Fabriano. No, non può essere lei. Pagai in fretta e furia senza neanche finire il cappuccino. Mi avviai verso la macchina, e misi in moto cercando di reprimere il senso di colpa e la paura. I brutti pensieri. Soprattutto i brutti pensieri. Arrivai a casa, andai dritto in camera mia, chiusi a chiave e misi le mani nella borsa. Questa volta non era un tatuaggio. La pistola era vera. Mi sentivo morire. Avevo fatto l’amore con un’assassina ed ero stato suo complice nella fuga. Mi sedetti a terra con la pistola in mano, poi cercai altro. C’era una foto. Un uomo di vent’anni sorrideva. Sembrava il padrone del mondo. Dietro di lui il Golden Bridge. Sul retro una dedica: A Marlene, with love. Chiusi tutto nell’armadio, pensando che avrei dovuto nascondere al più presto quelle prove. Chissà come, poi. Mi buttai sul letto. E ripensai agli occhi azzurri di quella ragazza. E alla promessa che le avevo fatto. Cercai invano di dormire mentre lei era già in volo verso la California priva, ormai per sempre, della foto dell’uomo della sua vita. Suo padre. L’uomo che aveva ucciso. Andai a cercarla qualche anno dopo a Mission, incrocio con Lowell. Ma non per sapere cosa fosse successo quella sera. Solo per rivederla e dirle che i suoi occhi non li avevo mai dimenticati. Mi chiese scusa e mi disse che il suo non era stato un gesto senza senso. Aveva passato una vita a cercare la verità su quell’uomo, ad amare quel padre che non l’aveva mai riconosciuta e in una sera di agosto quella stessa persona l’aveva portata a casa e messo ripetutamente le mani addosso fino a che non era successo qualcosa di molto spiacevole. Scoppiò a piangere e io gli dissi che per me non era importante conoscere il resto di quella storia. Mi fidavo e basta, e non l’avrei mai giudicata male, come le avevo promesso quella notte. E ancora oggi, quando passo davanti alla stazione di Fabriano spero di vederla ancora lì, ad aspettare un treno che non arriverà mai. Ma tutto questo Alice non lo sa. 

ps: forse non lo sai, ma ho scritto anche un romanzo. Se vuoi puoi iniziare a leggere Domani no. Le prime 30 pagine te le regalo. 

L’ebook è disponibile su Amazon ad un prezzo speciale. 

Love conquers Hate

Love conquers Hate

Ma tutto questo Alice non lo sa #3 (racconto breve in 5 puntate)

17 Apr

Ti sei perso le prime due puntate? Non c’è problema. La prima e la seconda non scappano:)

Non avrei avuto grossi problemi ad accompagnarla a Los Angeles, San Franciscoo San Diego. Iniziai ad incuriosirmi davvero. Cosa ci faceva una ragazza americana a Fabriano? E perché aspettava un treno di notte? Si slegò i capelli e si alzò le maniche del maglioncino di cotone. Anche lei aveva caldo quella notte. Una notte piena di grilli, stelle e zanzare. Alice mi chiese dove fosse la macchina. La invitai a seguirmi lungo il viale e mi offrii di portarle la borsa. Si limitò a ringraziarmi dicendo che poteva continuare a tenerla lei visto che non era poi così pesante e non aveva valige. Arrivammo sotto casa mia e le indicai la Golf grigia. Prima di partire mi chiese di aprirle la macchina. Non dissi nulla, premetti solo il tasto del telecomando per consentirle di entrare. Mi invitò a mettere in moto. Lo feci. Fu allora che azionò l’accendisigari e uscì dall’abitacolo, qualche secondo dopo, con la sigaretta accesa.

«Mind you… ti dispiace se fumo prima di partire?»

«Non c’è fretta» risposi. Mi domandai, tra lo stupore e l’eccitazione di un bambino che di notte si affaccia alla finestra e vede la neve, cosa diavolo stesse succedendo. Strana la piega che può prendere certe volte la notte. Strana in un paese come il mio, dove la cosa più esaltante che ti può capitare è scavalcare i cancelli della villa comunale per andare a guardare le stelle cadenti la notte di San Lorenzo. Era quella notte, adesso che ci penso. E io, per la prima volta dopo molti anni non avrei scavalcato quel cancello. Provai a spiegare quella tradizione ad Alice.

«Sei grande per scavalcare cancelli, non trovi?»

Aveva ragione, ed era soave. Il maglioncino impediva al suo seno prorompente di esplodere. Avrei voluto chiamare tutti i miei amici. Avrei voluto che chiunque passasse di lì per osservare quella meravigliosa creatura. Alice guardò l’orologio e senza aggiungere nulla mi comunicò con fermezza da ufficiale giudiziario che potevamo andare.

«Che strada faccio per arrivare… dove precisamente in California?»

«San Francisco, Mission Street. Incrocio con Lowell. Ma va bene anche se mi accompagni all’aeroporto di Roma. Ho un aereo domattina alle 11

La guardai ancora trenta secondi prima di inserire la prima. Non mi sfiorò nemmeno per un secondo l’idea di essere stato impulsivo a proporle di accompagnarla. Anzi, se non ci fosse stato l’Atlantico di mezzo, avrei guidato per 10 settimane di fila pur di portarla fino a Mission Street, angolo con LowellImmaginai la sua città come un posto multietnico, colorato, pieno di autobus caratteristici di ogni parte del mondo come avevo sentito, distrattamente, in uno di quei documentari che danno di notte quando ti accontenti di chiudere gli occhi e sentire le voci dei conduttori prima di cadere in un sonno cosciente e consapevole. Misi in moto. Questa volta fui io a non dire nulla. Mi accertai soltanto di avere con me qualche banconota.

«Ci fermiamo a prendere qualche birra?» Chiese con il solito sorriso al quale non avrei mai più saputo dire di no.

«A Fabriano è tutto chiuso adesso, ma fra qualche chilometro dovremmo trovare qualcosa aperto. Io però devo guidare.»

«Mi fai compagnia, che sarà una birra?»

«Posso chiederti come mai parli così bene l’italiano?»

«Mia madre è di Berkley, California. Nel 1982 conobbe un italiano, a San Francisco, ed ebbe una bambina. Eccomi qua.»

«Quindi tuo padre è italiano?»

«Io non l’ho mai conosciuto – si fece seria – ma sono cresciuta sentendomi raccontare questa storia. Fin da piccola ho studiato la vostra lingua per essere pronta, un giorno, ad incontrare quell’uomo. Mia madre mi regalò una foto e io la conservai per tanti anni. Ci parlavo con quella foto, da piccola. La amavo. Era un uomo bello, alto, importante. Aveva poco più di 25 anni. Ha sempre avuto poco più di venticinque anni, per me

Mi chiese il permesso di accendersi un’altra sigaretta. Poi continuò.

«Fu lui a darmi questo nome. Sua madre si chiamava così. Poi sparì. Questo è quello che mi ha raccontato mia madre.»

«Sei venuta a trovare lui?»

«Ho voglia di una birra.»

Capii che non voleva approfondire l’argomento. Nel buio dell’abitacolo brillava la fiamma della sua sigaretta ogni volta che la appoggiava alle labbra e aspirava il fumo. Poi soffiava e lasciava che volasse fuori dal finestrino insieme alle nostre parole. Presto saremmo arrivati a Roma e lei sarebbe partita verso casa sua. E io non l’avrei più rivista. Non mi sarei consolato con l’idea di andarla a trovare, un giorno, a San Francisco. Troppe ore di volo per un vigliacco come me. E poi chi ero per pensare di poterla andare a trovare? Alice si girò un attimo per dare un’occhiata alla borsa. Si assicurò ancora una volta che la cerniera fosse chiusa. Si aggiustò la gonna poi poggiò la mano sinistra sul pomello del cambio. Proprio lì dove, per abitudine, era appoggiata la mia. Mi disse grazie, ancora una volta, e riprese a guardare fuori. Gli alberi, le vallate, i paesi che sembravano appartenere ad un’altra epoca. Piccole fortezze medioevali, bellezze senza tempo che io trascuravo tutte le volte che passavo di lì.Fossato di Vico, Gubbio, Spoleto, i loro castelli e le luci della luna. Pensai alle gite che da piccolo avevo fatto con i miei in quei posti. L’emozione della novità. Loro che da Taranto si erano trasferiti a Fabriano per ricominciare. Perché mio padre era un operaio dell’Italsider, quella che oggi chiamano ILVA, e mia madre nutriva un profondo sospetto verso quella tosse catarrosa in un momento in cui si diceva che quella sarebbe stata la grande fortuna della città. Lo slancio verso un domani da protagonisti nell’economia italiana. (…continua)

Ps: ti va di leggere il mio romanzoLo sai che su Amazon trovi Domani No?

Ma tutto questo Alice non lo sa, Taranto.

Ma tutto questo Alice non lo sa, Taranto.

Caso mai non ci dovessimo rivedere – 10 obiettivi per il 2013, alla faccia dei Maya

21 Dic

Ok, il mondo non è finito e salvo complicazioni la Terra sopravviverà. Posso quindi concentrarmi su altro, ma non prima di aver raccolto alcuni tra i tweet e le immagini più belle in un breve e ironico Storify. Per quanto mi riguarda non sarà l’ultimo giorno del mondo, sarà semplicemente l’ultimo giorno di lavoro del 2012, almeno qui da Lampone. Vi risparmio bilanci e paroloni, mi limito a dire che per me è stato un anno proficuo (I manager userebbero altre parole, lo so). A scanso di equivoci mi preme ricordare che non sono diventato milionario, che il mio conto in banca è sempre lo stesso (in fondo anche questa è una buona notizia coi tempi che corrono) ma, nonostante questo, mi sento molto più appagato rispetto a 12 mesi fa. Ho imparato nuove cose, ho lavorato su me stesso ed ho seguito il principio di Sebastiano Zanolli per il quale non bisogna a tutti costi difendere un impiego, ma la propria impiegabilità. Parola che il dizionario non conosce, e che il correttore di testo mi segnala come errore: prendetelo come un incidente di percorso, ma non arrendetevi. Essere impiegabili vuol dire crearsi un’alternativa al proprio lavoro. E su questo mi sono concentrato. Niente catastrofismi. Non sto scappando dalla mia azienda e non vi dico di farlo. Solo che gli scenari, anche quelli apparentemente immutabili, cambiano. E per farsi trovare pronti bisogna leggere, formarsi, relazionarsi con i migliori, seguire le proprie passioni, scegliersi dei punti di riferimento. Questa è stata, per me, la lezione del 2012. Comunque, casomai non ci dovessimo rivedere, vorrei lasciarvi una breve lista delle cose che mi prefiggo di fare nel 2013. Se ne realizzo una in più della metà, sarà un altro anno positivo.

1. Fare un corso di dizione: come dice Osvaldo Danzi di Fior di Risorse sono tanto bravo a scrivere quanto disastroso a leggere. L’accento barese è meraviglioso, per quanto mi riguarda. Vorrei solo decidere io quando usarlo e quando no.

2. Leggere almeno un libro in più dello scorso anno: tra cartaceo e ebook ne ho letti 46. Questa è dedicata a chi dice che libro di carta e kindle non possono coesistere. Non si tratta di mezzi, si tratta di voglia. Andrei per i 50.

3. Migliorare il mio inglese: il viaggio a San Francisco è stato solo il primo passo. Che sia a Londra, a casa mia, o a casa di Luca (e non è una canzone di Silvia Salemi) bisogna approfondire.

4. Fare un viaggio in Oriente: ho realizzato il desiderio di visitare gli Stati Uniti. Ora vorrei andare dall’altra parte del mondo e conoscere la cultura orientale. Devo ancora decidere se Cina o Giappone e creare i presupposti per fare questo viaggio.

5. Pubblicare Domani no: dovremmo riuscirci a Gennaio, vero Gelsorosso?

6. Fare parte di una raccolta di racconti nel quale ci sarà il mio “Ma tutto questo Alice non lo sa“. Non posso aggiungere altro, il progetto è top secret.

7. Investire in formazione ma al tempo stesso fare formazione. Alle aziende e ai privati. Vorrei che questa attività diventasse parte integrante del mio lavoro quotidiano.

8. Limitare leggermente l’uso dei social network. So che questo punto è delicato, ma credo di aver abusato di Facebook, Twitter e Instagram nel 2012. Per giusta causa. Ma una dieta tecnologica ci sta tutta. Meno social, più libri.

9. Contribuire in maniera ancora più attiva ai nuovi (entusiasmanti) progetti di Fior di Risorse. Se Lampone è la mia squadra di club, Fior di Risorse è la nazionale. E io alla nazionale ci tengo.

10. Contribuire a far crescere i giovani arbitri della mia sezione con consigli in campo e fuori. A 33 anni mi diverto ancora a scendere in campo. Ma il mio futuro è da osservatore, ed è bene che io inizi a delinearlo.

Ho dimenticato qualcosa?

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Per caso un corno (trasformare le passioni in lavoro ha un prezzo)

21 Nov
Dirò Personal Branding una volta sola in questo post. Quindi il mio bonus me lo sono già giocato. Preferirei parlare in maniera più semplice, diretta, chiara se possibile. Nel mezzo di una delle settimane più importanti della mia vita professionale mi fermo un attimo a riflettere. Spesso la riflessione coincide con la scrittura nel mio caso. Una squadra si serie A che non è quella della mia città (anche perchè il Bari gioca in B) ha pubblicato una mia storia. Ne scriverò altre. Un’agenzia di viaggi mi chiede di partire per loro. Un ristorante di mangiare e raccontare loro le mie impressioni. Cosa hanno in comune queste tre realtà? Una squadra di calcio, un’agenzia di viaggi e un ristorante? Ve lo dico subito: il calcio, i viaggi e il cibo sono le mie tre passioni. La quarta è la scrittura. Ed è scrivendo con costanza (ed esercitando uno stile) che mi sono guadagnato le attenzioni di chi oggi mi paga per fare ciò che mi piace. E mi sembra anche giusto. Perchè se ti eserciti per fare una cosa al meglio e credi in un obiettivo fai di tutto per realizzarlo. Ho cento libri nell’ebook reader (o come diceva più romanticamente Gianni Togni ho mille libri nel cassetto) e ogni sera mi aggiorno, mi informo, prendo appunti. Quando rivedo le mie presentazioni e i miei post non sono mai soddisfatto, perchè so che lavorando su me stesso posso fare meglio. Ecco perchè credo che le cose non accadano per caso. Quando un paio di anni fa scrivevo su un blog sconosciuto che si chiamava boavida in molti storcevano il naso. Devi andare a lavorare mi dicevano. Avevano ragione, peccato che una multinazionale (a cui devo moltissimo e sono serio) mi aveva gentilmente pregato di andare a casa dopo 12 mesi di stage (esperienza che rifarei mille volte, anche gratis). Qualcosa dovevo pur inventarmi. Mi sono messo a fare quello che mi riusciva meglio: scrivere. D’altronde ha ragione Sebastiano Zanolli quando dice: “Non cercate un lavoro, cercate di risolvere un problema“. Molti non hanno tempo per scrivere o semplicemente non si sentono a proprio agio quando lo fanno. Perchè allora non risolvere questo problema alla gente? E se posso anche divertirmi che male c’è? E così quest’estate sono stato a San Francisco e tra una lezione di inglese e l’altra ho raccontato il mio viaggio. Credo di averlo fatto abbastanza bene, tant’è che a qualcuno viene in mente questa idea “Ma se ti mando un’altra volta in America, me la racconti?” Of course. Il mio amore per il Bari mi ha portato a scrivere 60 (di 100) puntate di U Bàr iè fort. E così qualche mese più tardi un’associazione di nome Etwoo mi dice “abbiamo tantissimi cimeli sportivi da raccontare, te ne occupi tu?” Ma certo. E domenica sera ho fatto il mio esordio nel derby della Lanterna. Li ho contati quelli che hanno detto ma dove va questo Etwoo? Chi li compra questi oggetti? Ecco la migliore risposta. E a furia di fotografare pietanze con Instagram ci sta che un ristorante (facciamo due, tre) mi convochi per testare la sua cucina. Ora non fate quelli che pensano “che bella vita” che poi mi portate sfiga anche perchè, tanto per darvi due numeri, vi dico che un buon 70% delle cose che faccio rientra nella categoria investimenti. Lascio a voi la traduzione di questa parola. Il succo del discorso è che ci sono tante opportunità ma bisogna saperle sfruttare. Ed è più semplice farlo se non ci si limita ad eseguire il compitino e si cerca di fare qualcosa che davvero appassiona, che non ha orari, che ci tiene impegnati il sabato e la domenica e durante le ferie. A volte mi sento stronzo a trasmettere ottimismo in un periodo come questo. Non me ne vogliate per questo.
Bibliografia essenziale per scrivere questo post:

Il mestiere di scrivere – Luisa Carrada

100 things every presenter needs – Susan Weinschenk

Instant MBA – 52 Brilliant Ideas

The 4 Hours Workweek – Timothy Ferriss

Guadagnare un’ora al giorno – Michael Happell

Dovresti tornare a guidare il camion Elvis – Sebastiano Zanolli

Scrivere 2.0 – Luca Lorenzetti

Lavoro e carriera con Linkedin – Luca Conti

Ma tutto questo Alice non lo sa (Un’estate a San Francisco)

20 Ago

Uno dei miei luoghi comuni preferiti è la frase “non ci sono parole“. La uso spesso, a volte anche quando potrei sforzarmi a trovarle, quelle giuste. Un atto di pigrizia che un aspirante narratore, o presunto tale, non dovrebbe mai concedersi. Perchè le parole ci sono sempre. A volte sono nascoste, grezze, primordiali, ma sono lì, pronte ad essere usate. Le generazioni precedenti ce le hanno lasciate in dono. Tocca a noi lavorarci sopra, renderle fruibili, passionali, viscerali. Sono tornato da 24 ore da uno dei viaggi più belli della mia vita. Forse il più bello, sicuramente il più intenso e folle, dal momento che ho voluto affrontarlo da solo, per scelta. San Francisco è una città meravigliosa, eclettica, con una personalità disarmante. Genio e sregolatezza, Arte e maniera, Peace and Love. Ho consumato le strade della città a forza di camminarci sopra. Avanti e indietro da Market St. a Mission, passando per Powell, Geary e Lowell. Salite e discese, da Chinatown a Nob Hill. Sempre a testa alta, sempre pensando “Ho fatto la scelta giusta“. Eppure i primi due giorni ho avuto paura. Di aver buttato un’estate, intendo. Solo e con una felpa addosso, in un quartiere che sembrava ostile per la presenza degli homeless, i senza tetto. Poi ti ci abitui e capisci che è gente  tranquilla, buona, disposta a darti una mano e con un incredibile attaccamento alla bandiera americana. Quello Stato non dà loro una casa nè un sistema sanitario, eppure gli homeless espongono, con orgoglio, la bandiera a stelle strisce sulla loro sedia a rotelle o sulle loro coperte di flanella. Perchè? La risposta sta nella parola Hope. Speranza. Gi americani credono sempre che le cose possano cambiare, che nessuna situazione sia irreversibile, e questa è la più grande lezione che ho imparato da questa gente. Con il passare dei giorni anche quel quartiere mi è sembrato più bello. Persino la nebbia, a San Francisco ha il suo fascino. Viene dalla Baia e tutte le mattine, come un sipario, tiene la città nascosta dietro una coltre. Poi arrivi in Downtown, nel cuore pulsante della città e splende sempre il sole. Un sole che non stanca, che non appiccica, eppure così splendente, pulito. Ho conosciuto ragazzi di tutto il mondo. Molti di loro nati tra la fine degli ’80 e i primi ’90. Mi sono sentito grande ma mai vecchio. Li ho conosciuti, apprezzati, a volte aiutati. Venivano da tutto il mondo. Dalla Spagna, dal Belgio, dalla Francia, dalla Corea, dal Brasile, dalla Cina, dall’Argentina, dall’Egitto. Ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa. Marta si sta laureando in biologia. Viene dalla Catalunya e  per un anno vivrà a San Diego. Thomas studia arte in Belgio. Ha 24 anni e per i prossimi due studierà a San Francisco. Elisa sembra sempre con la testa tra le nuvole. Viene da Burgos, una piccola cittadina della Spagna centrale. Ma a San Francisco non si perde mai e a 23 anni sa sempre cosa fare. Izat è basca ma vuole migliorare il suo inglese. Ha carattere da vendere e anche se perde il portafoglio lo ritrova il giorno dopo. Testarda come solo una basca sa essere. Alessandro è italiano ma vuole parlare inglese anche con me. Ama la matematica e non gli piacciono la pizza, il mare e la birra. Forse è francese e non lo sa. Io mi chiamo Cristiano ed ho 33 anni. Scusate il ritardo ragazzi, ma ho avuto da fare (cosa poi, non lo so). La città è un crogiolo di razze. Un meltin pot perfetto. Tutti salutano tutti, tutti sorridono, se ti vedono con una mappa in mano ti chiedono dove vuoi andare e come possono aiutarti. Mi lascio aiutare, consigliare, sedurre da questa città. Il vento fresco soffia sulle nostre facce. Di giorno è piacevole, di sera un po’ meno. Ma non fa niente. Siamo in California e tanto basta. Le giornate passano veloci. Troppo da fare, troppo da vedere e il tempo è sempre troppo poco. Ma quello che ho voglio sfruttarlo, fino all’ultimo secondo, a costo di non dormire mai. Sveglia alle 7 e ritirata alle 3. Il cuore mi si riempie di felicità fino all’inverosimile, il mio inglese migliora giorno dopo giorno, imparo a memoria i nomi delle strade, so perfettamente quali mezzi prendere in ogni occasione. Adoro tutto di questa città, persino il clima. E il cibo. Se c’è una cosa che amo, durante un viaggio, è sentirmi parte integrante di un posto. Per questo scelgo spesso soggiorni lunghi in una città. Voglio sentirmi cittadino, prima ancora che turista. Voglio poter raccontare una città a memoria e poter dire “Ci ho vissuto” e non solo “L’ho visitata“. Io a San Francisco ci ho vissuto, ma soprattutto San Francisco ha vissuto in me, con i suoi umori, la sue eccezionali follie e, dall’altra parte, l’ordine meticoloso di chi sa far funzionare le cose a meraviglia. Hanno vissuto in me l’Embarcadero, il Golden Gate Bridge, Ocean beach e Castro. Hanno vissuto in me gli sguardi di tutte le persone che ho incontrato, anche solo per una sera, o solo per un sorriso. E sempre ci vivranno. Forse ne nascerà un romanzo, ma non sarà autobiografico, se non nella descrizione dei posti che ho avuto la fortuna di vivere. Mi piacerebbe parlasse di Alice, una ragazza che non ho mai incontrato, non ho conosciuto e forse non esiste. Una ragazza alla ricerca delle sue origini, delle sue radici italiane. Lei ama girare il mondo, ed è cresciuta a San Francisco. Vorrei che avesse un po’ di me, un po’ di Elisa, un po’ di Marta, un po’ di Izat e un po’ di tutta la gente che ho incontrato durante quest’estate. Penso che racconterò la strana storia della pronuncia del suo nome.  Elis per la madre Californiana, Alice per quel padre marchigiano mai conosciuto. Ma tutto questo, Alice, non lo sa.

American Beauty

18 Ago

“È difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare e poi mi ricordo di rilassarmi e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia e io non posso provare che gratitudine per ogni singolo momento della mia piccola, stupida vita. Non avete idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi.. Un giorno, l’avrete…”

(da: American Beauty)

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Good bye malinconia

18 Ago

Mi piace riguardare le foto. Dietro certi sorrisi ci sono un sacco di perché. Riguardo le mie dei primi due giorni a San Francisco. Non inganni il Golden Gate Bridge alle spalle. Il sorriso è appena abbozzato, quasi forzato. Sono solo e fa freddo, una casa dall’altra parte della città. E quel pensiero martellante in testa. “Ma non potevo andare a mare come tutti gli altri?“. Poi ricordo che quel pensiero non mi ha sfiorato più. Mi sono seduto in una classe piena di ragazzi di tutto il mondo e il tempo ha incominciato a correre. Mi sono ritrovato in quella stessa classe tre settimane a dopo a pensare “Ma davvero devo già tornare a casa?“. Ed ho riguardato le foto. I sorrisi dei giorni successivi erano belli, solari, sinceri. Ho pensato a Tomhas, Elisa, Alessandro, Izat e Marta. Loro sono stati i miei compagni di viaggio. Non so se ci siamo scelti o se è stato solo un caso, ma è meravigliosa l’alchimia che unisce persone diverse in un unico viaggio. Avrò tempo e modo di raccontare. A volte si dice che non ci sono parole per descrivere un’esperienza così bella. Io invece credo di averle. Le ho dentro, devo solo srotolarle e cucirle. Ma adesso sto per partire e non voglio farmi prendere dalla malinconia. E allora per sorridere ho iniziato a fare un elenco delle cose che non vedo l’ora di fare, una volta arrivato: rivedere la ragazza che amo. Fare l’amore (che un mese senza non è poco). Dormire in un letto decente. Mettere le infradito. Bere un buon caffè. Mangiare un piatto di spaghetti. Ricominciare a parlare di calcio. Fischiare e sbandierare. Un bagno a mare. Passeggiare senza uno zaino in spalla. Dormire un po’ (strana questa cosa che uno debba riprendere a lavorare per riposare). Non mi viene altro ma credo basti per farmi affrontare più serenamente questo viaggio. Il resto ve lo racconto appena torno, promesso.

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