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66) Chievo – Bari, 18 ottobre 2009 – U Bàr iè fòrt (?)

15 Mar

Il bello del pallone è che a volte bastano 30 secondi a farti ricordare una partita per tutta la vita. Anche se questa partita non è la finale dei mondiali, o di Champions League. Trenta secondi vissuti, intensi, lunghissimi, che restano nella tua mente per sempre. Per questo il calcio è bellissimo anche senza tiqui taca. Perchè un batti e ribatti senza senso, in area di rigore, con giocatori che diventano muri umani e un pallone che rimbalza malissimo su un terreno infido, è spesso la vera essenza di questo sport. Di questa partita contro il Chievo conservo gli umori, il gusto, le voci, il batticuore. Le mani davanti agli occhi in quei minuti recupero, come in un film di paura. Le dita che stringono nervosamente la fodera del divano, ci si aggrappano, come ad una speranza. Respingi sto cazzo di pallone, respingilo. Quei diavoli in maglia gialla, assatanati e duri a morire, che non mollano mai.

Il Bari ha iniziato bene la sua nuova avventura in serie A. La squadra di Conte, diventata nel frattempo di Ventura, si conosce e non sembra soffrire troppo il cambio della guida tecnica. L’inizio è folgorante e il pareggio di San Siro contro la squadra che vincerà tutto lascia presagire un annata di soddisfazioni. Ma alla quinta giornata arriva la prima sconfitta in casa, contro il Cagliari. Un incidente di percorso e comunque un monito: non sarà una passeggiata. I ragazzi (all’epoca siamo lontani da pensieri atroci su scommesse e marciumi vari) reagiscono e una settimana dopo vanno a cogliere un punto importantissimo, di nuovo a San Siro, contro il Milan di Leonardo, quello che oggi ha chiesto la mano in diretta televisiva alla sua compagna, Anna Billiò. Punto fondamentale non tanto per la classifica, quando per il morale. Il Bari domina, spaventa, attacca, si rammarica per non aver vinto. Ma stupisce l’Italia, come spesso accadrà in quella stagione. Dopo uno scialbo pareggio casalingo contro il Catania, arriva la trasferta di Verona. Una trasferta difficile rispetto alle precedenti: si gioca sul campo di una diretta concorrente per la salvezza. Non c’è più da stupire, sono finite le gare di rodaggio, quelle in cui non c’è niente da perdere, è arrivata la partita che ci dirà chi siamo. Per la cronaca, è il 18 ottobre del 2009.

Ventura conferma Ranocchia e Bonucci al centro della difesa, nonostante qualcuno si ostini a chiedere l’arrivo di un difensore di esperienza al posto del secondo. Chi lo definisce distratto, chi falloso, chi disordinato. Ma Ventura non sente ragioni. Nonostante l’esperienza di Pisa (squadra retrocessa in C a fine stagione, con Giordano in panchina) ha pronosticato per Bonucci un futuro da campione. Deve solo applicarsi e ascoltarlo. Sfruttare la sua abilità nel rovesciare l’azione e avere fiducia nei propri mezzi. Fiducia che presto Leonardo conquista, e non abbandona più. Il Chievo, che viene da una preziosa vittoria a Cagliari, è squadra scomoda, sgorbutica, guidata da un allenatore che inculca alla sua squadra la stessa mentalità che aveva da giocatore: correre, correre, correre. Non tutti sanno che, in un intervista alla Gazzetta dello Sport, nientepopodimenoché Zinedine Zidane dichiarò che l’avversario che l’aveva messo maggiormente in difficoltà, durante la carriera, era stato proprio Mimmo Di Carlo. Correva come un matto, non mi faceva respirare, non toccai un pallone. Parlava di una partita della Juventus a Vicenza, nella sua prima stagione italiana.

La sua squadra va ad una velocità pazzesca, fa pressing e può contare su dei giganti capaci di fiondarsi senza paura su tutte le palle che gravitano in in cielo: Pellisier, Granoche, Bogdani, Yepes, sono brutti clienti per i colpitori di testa del Bari, che però non sono da meno. E lo dimostrano subito. Punizione tagliata di Sasà Masiello, altra (ri)scoperta di Mister Libidine, e colpo di testa astuto di Almiron che spedisce la palla nel sette, alle spalle di Sorrentino. Il suo colpo di testa è più preciso che potente, si inarca per poi abbassarsi e infilarsi nell’unico spazio consentito. Il Bari è in vantaggio e l’argentino esulta. Io pure, dal divano di casa. Non mi illudo, ma mi rassereno. Non abbiamo paura di nessuno. Il Chievo prova a rispondere subito, e ci riesce con Luciano che si mangia un gol incredibile, praticamente a porta vuota. Gillet da sicurezza, non sa ancora che finale di partita lo aspetta. Il Bari non sta a guardare, Barreto danza sull’erba del Bentegodi, Meggiorini, in tuffo, mette alla prova i riflessi di Sorrentino. Il secondo tempo inizia con un altro miracolo di Gillet, stavolta su Pellissier. Ma al 20′ il Bari legittima la sua intraprendenza. Bello il lavoro di Kutuzov, entrato al posto di Barreto, sulla fascia sinistra. Doppio passo e via sul fondo. Cross delicato per la testa di Andrea Ranocchia che svetta ancora più in alto di tutti, e fa conoscere il suo nome e le sue doti di calciatore a tutta la serie A. Lob di testa morbido morbido sul secondo palo. Sorrentino resta ferma e io posso scatenare la mia esultanza.

U Bar iè fort, penso. Zero a due, e primi tre punti in trasferta. Senza neanche soffrire magari. Magari. Poi succede che dieci minuti più tardi Yepes mette in mezzo un pallone perfido sul quale si avventa Bogdani, vecchio filobustiere dell’area di rigore (cit), che insacca. C’è sempre un Bogdani pronto a punirti, e a metterti con le spalle al muro, in ogni partita. Dovevo sospettarlo. Puoi giocare con la Reggina, col Chievo, col Cesena, col Brescia, col Siena o con il Vicenza, ma Bogdani e lì, pronto a rimettere tutto in discussione. Non sai mai da dove sbuca un attaccante che cambia di media due squadre all’anno. La partita si riapre, la mia pennichella pomeridiana, che lo 0 a 2 stava consentendo, svanisce tutta d’un tratto. Così come il segnale di Sky, all’improvviso. Cerco Salomone in streaming radio, mi fido solo di lui. Se devo soffrire, preferisco farlo con la voce di mille battaglie. Mi pento subito. Il Chievo attacca a spron battuto, io mi illudo che la parola “pericolo” stia a a significare che i padroni di casa hanno superato il centrocampo. Con Michele, spesso è così. Sento varie imprecazioni per Alvarez e una bella grossa per Meggiorini, reo di essersi mangiato, sempre di testa, un gol a porta spalancata. Un gol facile facile, dice lui.

L’arbitro concede quattro minuti di recupero. Un’eternità per una radiocronaca di Michele Salomone. Poi succede l’incredibile. Se sono qui a raccontare questa partita, lo devo a Michele e a quella incredibile mischia. Il segnale va e viene. Sento solo Noooo Bentivoglio, anzi siii, attenzione, c’è una mischia incredibile, non posso descrivervi nulla, non posso descrivervi nulla, usciamo, anzi no – e vorrei spegnere la radio e lasciar perdere perché non si può soffrire così per una partita – il pallone sulla linea, Gillet miracolo, Gillet miracolo ancora, non so dirvi chi, aiuto, il pallone portato fuori con l’anima. Eccola, la prodezza balistica di Michele Salomone. In un momento di enfasi incredibile, di confusione totale, ha trovato la poesia: quel pallone portato fuori con l’anima è l’immagine romantica di una difesa che vuole a tutti i costi portare a casa questi tre punti e si immola per farlo. Alla fine sento una parola magica, ripetuta tre volte: fuorigioco, fuorigioco, fuorigioco. Respiriamo. Ma non è finita. I gialloblu attaccano ancora, Sono duri a morire questi giocatori del Chievo! Buttano ancora il pallone avanti, ma quando finiscono questi quattro minuti? Langella fa ripartire l’azione del Bari. Alvarez è solo, e si mangia un altro gol. Ma non fa niente. Non ce ne frega niente del calcio d’angolo. L’arbitro fischia la fine. Il Bari vince la sua prima partita in trasferta e vola ad 11 punti. Spengo la radio e vado davanti allo specchio a condividere la felicità con me stesso. Ho le orecchie arrossate e la faccia un po’ tesa. Mannaggia a Salomone, mannaggia al Bari.

Prossima partita, Bari – Padova 5 giugno 1994 

Gillet, chiude la porta agli attaccanti del Chievo.

Gillet, chiude la porta agli attaccanti del Chievo.

La verità, vi prego, sul pallone #11

19 Nov

Il derby di Genova chiude una giornata di campionato piuttosto isterica. Espulsioni a raffica, giocatori che perdono la testa, allenatori in silenzio stampa, dirigenti che gridano al complotto. A Marassi si gioca una partita tesa ma agonisticamente corretta con due squadre mediocri e un pubblico meraviglioso. Penultima contro ultima solo per la classifica. Il calcio è qui, nella gradinata nord del Genoa che sventola le sue bandiere anche dopo il gol dell’1 a 3. Nella gradinata sud della Samp che canta che il cielo è sempre più blu. Ci pensa un ragazzino di 19 anni, Maurito Icardi, da Rosario. Lo manda Messi, dicono. Hanno giocato assieme a Barcellona. La cosa fa sorridere ma quando il ragazzo si beve tutta la difesa genoana costringendo Bovo ad un autogol alla Masiello (senza essere passato prima dalla Snai) la domanda è spontanea: ma perchè questo ragazzo ha aspettato tanto tempo in panchina? In ogni caso la Samp va sul 2 a 0, spreca l’impossibile, prende il 2 a 1, soffre e rischia anche di pareggiare. Ammetto di non essere mai stato un grande estimatore di Ferrara. Ma se la Samp avesse pareggiato questa partita sarebbe stato difficile dare la colpa all’allenatore con tutti i gol che i giocatori blucerchiati si sono divorati davanti a Frey. Alla fine ci pensa ancora lui, il ragazzino, a chiudere la gara e salvare la panchina di Ciro (il grande, per una notte). Chissà che notte sarà invece per Del Neri. Sesta sconfitta e un difficilissimo rapporto con la piazza per lui. Un allenatore che fa fatica a farsi capire quando ha due mesi di precampionato, figuriamoci arrivando a campionato iniziato. A parte che fa fatica a farsi capire in generale con quel suo xhandfasdaòlnka. Punterà sul rientro di Vargas e sulla voglia di Borriello e Immobile. Ad occhio la loro coesistenza mi sembra difficile. Se non altro perchè due attaccanti fighi e con lo stesso ciuffo non si sono mai visti assieme. Che nostalgia di Aguilera e Skhuravy. Vince la Juve, pur pareggiando. Marchetti alza la saracinesca e fa i miracoli. Conte alterna tutte le punte ma non trova la chiave di volta per sbloccare una partita che avrebbe meritato di stravincere. Adesso sotto con il Chealsea. La mia impressione è che la Juventus, involontariamente ma non troppo, punti a fare il bis in campionato anche a scapito dell’Europa. Ma forse è solo un impressione e martedì ne sapremo di più. Il Napoli si fa male da solo facendosi rimontare, e non è la prima volta. Stavolta l’impresa riesce al Milan grazie al giovane talento più limpido del calcio italiano: Stephan El Shaarawi. Nel disastro rossonero complimenti a chi ha creduto in luipur sapendo di non aver a che fare con il nipote di Mubarak. L’Inter spreca un’altra occasione dimostrando di essere lontana dalla consacrazione nonostante la vittoria di Torino. Stavolta perde la pazienza anche Stramaccioni, e a me tocca fare ammenda visto ciò che dissi due settimane fa. Il rigore c’è, all’ultimo minuto, ma il Cagliari non ruba niente. E se devo essere sincero gli errori sotto porta di Milito e company pesano almeno quanto quelli dell’arbitro. Al quarto posto c’è la Fiorentina. Non parlerà ancora di Montella. Ma di Aquilani si. La copertina la dedico a lui. Giovane promessa della Roma e del calcio italiano (nonchè compagno di Michela Quattrociocche, do you know 3 metri sopra il cielo?) ha giocato le ultime tre stagioni con Liverpool, Juventus e Milan. Il Gotha del calcio mondiale. Si è perso. Qualcuno pensava per sempre. Invece, dopo molti infortuni e qualche incomprensione, ha trovato un allenatore che ha creduto in lui ed è salito in cattedra. D’altronde a Firenze sono riusciti anche a far ringiovanire Luca Toni di 4-5 anni. Adesso sognare non è vietato. Ringiovanisce anche Gilardino che ritrova la via del gol. Mentre a Pescara finisce la telenovela Stroppa. Alla fine è lui a dare le dimissioni. Una rarità nel calcio. Una rarità in generale, in Italia. Ma tant’è. Non si parla mai troppo del Catania. Sesta in classifica, con un signor allenatore (Maran) e due giocatori di classe purissima. Uno si chiama Lodi e l’altro Almiron. Un giorno il buon Sergio Bernardo dovrà spiegarci cosa ne è stato della sua carriera e perchè non è riuscito ad affermarsi in una grandissima squadra come avrebbe sicuramente potuto. Si chiude stasera con Roma – Torino, il monday night della serie A. Prepariamoci ad una settimana di calcio spezzatino, per la gioia di Adele. A domani, su Controradio!

49) Sampdoria – Bari, 1 novembre 2009 – U Bàr iè fort (?)

23 Lug

Qualcuno lo chiama gemellaggio, qualcun’altro semplicemente amicizia. La verità è che quel numero 99 la maglia del Bari di dosso non se la toglierà mai. A Genova tanta classe nei piedi di un solo giocatore non si vedeva dai tempi di Roberto Mancini, e questo i tifosi della Sampdoria lo sanno. A noi va bene così. In fondo è passato del tempo da quando Tonino ha lasciato Bari Vecchia. E poi abbiamo uno squadrone. Ventura ha preso le redini della squadra che aveva dominato il campionato di serie B con Antonio Conte alla guida. Ha ben assemblato i nuovi: Bonucci, Donati, Almironi e Meggiorni. Risultato: una squadra che impone il proprio gioco in casa e fuori, un giocattolo perfetto che fa punti ed entusiasma. Non per niente siamo all’unidicesima giornata e in trasferta si è perso solo una volta, tre giorni prima a Parma, in un turno infrasettimanale. Ventura dice che la squadra non è pronta a giocare tre volte in una settimana e poi a Parma proprio non si riesce mai a vincere. In compenso il Bari ha vinto a Verona contro il Chievo e soprattutto ha pareggiato due volte a Milano. Contro l’Inter rischiando il colpaccio al novantesimo con Rivas. Contro il Milan giocando una delle più belle partite che io ricordi, in poche parole dominando. Sono quasi 6000 i baresi che raggiungono Genova per la sfida alla Samp di Del Neri. E’ il 1 novembre del 2009. Il biancorosso è dappertutto. In gradinata nord ma anche in tribuna e sovente si alza il coro “Antonio Cassano ee oo” che in pochi secondi coinvolge l’intero stadio. Prima della partita il grande protagonista viene a prendersi il suo applauso sotto la curva. Eccola casa sua. Forse in un altro posto, una città che può proteggerlo meglio di quella in cui è nato. Una città dove il mare ha un altro colore e al porto i pescatori parlano un altro dialetto, incomprensibile per lui. Ma chi lo dice che la serenità non si può trovare altrove? Antonio l’ha trovata. Una città che lo ama (almeno la parte dove “Il cielo è sempre più blu“), una ragazza che gli darà un figlio. E allora sì, adesso può andare sotto la sua curva, quella biancorossa, a mandare baci e cuoricini. Cassano è quel tipo di giocatore che ha bisogno di queste situazioni. Uno stadio intero che lo ama, che lo acclama. Una sua grande debolezza che lo rende umano, e ci avvicina al suo passato, ai calci tirati per strada, alla madre da difendere, ai giubbotti usati come pali davanti alla Basilica di San Nicola. Ma non c’è tempo per i sentimentalismi. Il Bari di Ventura è una macchina perfetta. Difesa solida, centrocampo di corridori e grande movimento in attacco. Nessun calcio spettacolo d’assalto. Lo spettacolo è nella sincronia dei movimenti. Non per niente il risultato più gettonato per noi è lo 0 a 0. Ma non sono mai pareggi noiosi, anche quando non arrivano i gol. Il Bari gioca, eccome se gioca, e spesso costringe gli altri a difendersi. Lo fa anche con la Sampdoria. Cassano e Pazzini fanno fatica a dialogare. Ranocchia e Bonucci disputano la partita perfetta. Quella che li consacrerà all’attenzione di tutta l’Europa. Quando, con un pizzico di tracotanza, sui giornali si parlerà della difesa del Bari come una delle più forti, non solo in Italia. i due centrali, fortemente voluti da Ventura, chiudono tutti gli spazi, ripartono con eleganza e si scambiano grinta e complicità. Dove ogni tanto sbanda Bonucci (per troppa sicurezza, dote che solo i difensori di classe possono avere), ci pensa Gillet, con due interventi prodigiosi di seguito, su Cassano prima e su Pazzini poi. Il capitano è parte integrante dello spettacolo. I continui retropassaggi verso di lui, che tanto ci avevano fatto preoccupare (quasi rabbrividire, di certo bestemmiare) nella partita inaugurale contro l’Inter, diventano abitudine, certezza, marchio di fabbrica di una squadra che riparte dal proprio portiere, per “allargare il gioco”. Anche Del Neri, come Mourinho prima e Leonardo poi, finisce nella trappola di Ventura. Il Bari corre e fa correre, anche se di tiri in porta se ne vedono pochi. Alvarez in compenso fa impazzire Cacciatore, mentre Langella, in una delle sue rarissime apparizioni con la maglia del Bari, tiene a bada Mannini. La curva biancorossa canta, lo spettacolo è anche fuori dal campo. Prova generale dell’esodo di Roma, quando in 12.000 raggiungeranno la capitale. Ventura chiede ad Almiron di pressare Palombo e a Donati di seguire Poli. Gillet è strepitoso su Mannini ad inizio secondo tempo. Poi è Alvarez, solo davanti a Castellazzi a mangiarsi incredibilmente il gol del vantaggio. Veloce è veloce, ma quanti gol si mangia l’hondureno.Un lancio di Bonucci trova Kutuzov liberissimo. Il bielorusso però si perde nella sua specialità da trasferta: inciampare sul pallone. Mister Libidine capisce che è arrivato il momento di rischiare Meggiorini. Lui che contro il Milan si era mangiato un gol clamoroso. Lui che però, fresco com’è, può trovare lo spunto decisivo. Siamo al 90′. Il pareggio va bene ma il Bari non si accontenta. Meggiorini viene servito da un filtrante laterale di Barreto, prima prova a tirare al volo e liscia il pallone, quindi si ritrova non si sa come a tu per tu con Castellazzi, che lo stende. Rigore solare a giallo per il portiere blucerchiato. Sul dischetto va Barreto. I rigori al 90′ non mi piacciono. Mi mettono addosso troppa ansia. Barreto sistema il pallone. Spiazzalo Vitino. Castellazzi è nervoso, balla sulla linea. Troppo piccolo Barreto, troppo grosso Castellazzi per le telecamere in HD di Sky, quelle alle quali non eravamo abituati, tra Cittadelle varie e campi di provincia. Troppo piccola la porta per me. Lo specchio si restringe mentre Vitor prende la rincorsa. Fuori. Porca puttana, fuori. Avevamo la vittoria in tasca e invece il pallone, beffardo, si adagia sui cartelloni pubblicitari mentre Castellazzi si prende la briga di andare a insultare l’arbitro, anche se è già ammonito. Un’altra squadra tirerebbe i remi in barca, accontentandosi del pareggio. Questo Bari, quel Bari, quello che un anno dopo si scioglierà come neve al sole, no. Trova la forza per gettarsi nuovamente in attacco e un calcio di punizione sulla tre quarti. Almiron inventa un pallonetto magico quando tutti si aspettano la botta secca. Barreto, dimenticato in area allunga di testa verso il secondo palo. Bonucci, quello che ha disputato una partita perfetta, si avventa sul pallone e lo spedisce in rete. Delirio. Cosa c’è di più bello? Rigore sbagliato al 90′ e gol della vittoria due minuti più tardi. Invece niente. Bandierina alta e gol annullato. Donati si va a prendere un’ammonizione per proteste, mani nei capelli e un po’ di rabbia agonostica. Il replay dimostrerà che la rete era regolare e che Bonucci era dietro la linea del pallone, ma non fa niente. La partita finisce, i biancorossi escono dal campo tra gli applausi, la Samp (e Cassano) tra qualche fischio. Antonio si sfogherà davanti alla telecamera (Chi è stato abituato a mangiare troppo bene… tralascio il resto per pudore) Il Bari torna a casa con la consapevolezza di essere una squadra di grande carattere, che può giocarsela con tutti. Io spengo la tv deluso, ma felice di aver visto un grande Bari. Come posso immaginare che un giorno finirò per odiarli molti di questi giocatori?

prossima puntata: Inter – Bari, 1 novembre 1998

Il “lauto” gol di Masiello (elogio e critica dell’autorete)

3 Apr

Sono sicuro che non tutti lo sanno. La mia deformazione professionale (arbitrale) mi impone di farvi una domanda. Sapete che succede se un difensore calcia una punizione direttamente nella propria porta sorprendendo il portiere? Ve lo dico subito: si riprende il gioco con un calcio d’angolo. Ma come, direte voi, non è autogol? No, è calcio d’angolo, ve lo assicuro. Lo dice il regolamento. E sapete perchè? Perchè segnare volontariamente una rete contro la propria squadra va contro lo “spirito del gioco” e chi ha inventato questo sport meraviglioso aveva pensato di salvaguardare uno strano ed assurdo principio: la lealtà. Capite subito cosa voglia dire contravvenire a questo dogma. Eppure l’autogol è stato quasi sempre oggetto di ilarità, sinonimo di sfortuna, mancanza di coordinazione, veemenza sproporzionata. Comunardo Niccolai era un difensore molto forte negli anni ’70, eppure era solito infilare la propria porta come un bomber di razza. Poi è arrivato Riccardo Ferri, arcigno stopper (si chiamavano ancora così i “centrali”) dell’Inter e della Nazionale ed ha battuto il record di gol segnati nella propria porta, quasi sempre difesa da Walter Zenga. Ma nessuno l0 ha mai considerato un brocco per questo, anzi. Ligabue, da buon interista, gli ha persino dedicato una canzone. Mai dire gol ci ha mostrato degli autogol incredibili, vittorie al fantacalcio sono sfumate per colpa di quel – 2 che poi, ad un certo punto, è stato soppresso. Quando qualcuno si è inventato la regola di depennare l’autogol dal tabellino dei marcatori e attribuire la rete a chi aveva tirato verso  la porta. Insomma su questo argomento si è riso e scherzato fino ad una tragica notte di giugno del 1994. Escobar, difensore colombiano, devia nella propria porta un tiro piuttosto innocuo dell’attaccante americano Wynalda. La Colombia va fuori dai Mondiali e Escobar viene freddato, con una raffica di colpi di pistola a Medellin. Non sarà mai chiaro quanto quell’autogol abbia influito sull’omicidio probabilmente legato ad altre ragioni. Di autoreti ne ricordo molte altre. Alcune davvero goffe, altre molto sfortunate, ma non ne ricordo di volontarie. Poi è arrivato il derby tra Bari e Lecce e l’incubo di ogni tifoso è diventato realtà. Io non ho visto quella partita. Il Bari era già retrocesso e sinceramente non mi aspettavo nessuna prova di orgoglio da parte di chi, l’orgoglio, l’aveva lasciato a casa da tempo. Ho appreso il risultato la sera, ho visto le immagini della festa del Lecce e, detto tra noi, non ho neanche provato un gran dispiacere. In fondo il progetto di mandare i cugini in B, era davvero da frustrati. Non avrei provato soddisfazione, non avrei applaudito nessuno, non mi sarei abbassato a ringraziare la mia squadra per così poco. E così quando ho visto le immagini della partita mi sono limitato a strocere la bocca e nulla più. In una stagione come quella, nella quale due compagni si prendono a cazzotti (infortunandosi) mentre festeggiano un gol e un giocatore si fa espellere prendendo due gialli in un minuto, l’autorete di Masiello era il minimo che potesse capitarci. Non ci ho fatto caso a Gillet, al suo famoso “andava fuori Andre” e ho spento il televisore. Fine delle trasmissioni. Quasi un anno dopo apprendo che quel Lauto Gol (stupenda definizione di Stefano Bartezzaghi) ha fruttato al sig. Masiello circa 230.000 euro. E chissà che questa non sia solo una piccola parte del bottino. La disperazione, le finte conferenze stampa, le parole contro Gillet e Almiron, adesso hanno un senso. Ma cosa resta a noi tifosi? Una società probabilmente responsabile (omettere è una colpa) che ci costringerà alla retrocessione, un direttore sportivo (Angelozzi) che messo davanti al problema dice “Tappatevi le orecchie e giocate“, un gruppo di delinquenti che si fanno chiamare Ultràs (con l’accento rigorosamente sulla a) e chiedono alla propria squadra di perdere. Questa è l’idea che Bari sta dando in giro per l’Italia e non solo. Questo è il risultato di un’arroganza mai combattuta di gente presuntuosa e convinta di poter sempre e comunque comandare. Quella che quando ero piccolo, in curva, ti chiedeva la sciarpa, il cappello, la mille lire e gliela dovevi dare sennò prendevi mazzate. Quella che ti chiede i soldi per il parcheggio abusivo altrimenti ti sfregia la macchina. Quella che vende i biglietti per la trasferta e poi sul pullman ti chiede altri soldi. Ecco, questa stesse gente, che si professa tifosa del Bari, ha spinto insieme a Masiello quel pallone in porta. E io sono stufo. Mica chiedo di cambiare il calcio. Andiamocela a fare questa Lega Pro, questa Serie D, questa Eccellenza, chi se ne fotte. Qual è il problema? O è meglio vedere la serie A e un giocatore colluso con la malavita organizzata che “cristallizza il risultato” (ma dove cazzo l’ha presa questa definizione). Mi auguro di non tornare più su questo argomento. Io non voglio essere uno di quei tifosi che invoca complotti e chiede giustizia sapendo di essere dalla parte del torto. Se la mia squadra del cuore ha sbagliato, che paghi. Ma paghino anche questi personaggi e non con gli arresti domiciliari e una squalifica di un anno. Non pensate all’autogol. Pensate al lauto gol. Ai 230.000 euro. Ai rapporti con la malavita, al pessimo esempio che Andrea Masiello ha dato ai giovani e non solo sul campo. Al potere dato a cinquanta delinquenti che decidono le sorti di una città intera, non solo per quanto riguarda il calcio. Io voglio un altro Bari e soprattutto voglio UN ALTRA BARI. Una città che si rifiuta di dare i soldi agli abusivi, di accettare i soprusi e gli autogol. Quelli contro lo spirito del gioco e della vita.